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Gli spiriti dell’isola, la recensione

Tradotto malamente con il titolo Gli spiriti dell’isola in Italia, The Banshees of Inisherin è l’ultimo film di Martin McDonagh. Un film esistenzialista. Beckettiano. 

Gli spiriti dell’isola, la trama

Siamo sull’isola immaginaria di Inisherin, in territorio irlandese, nel 1923, sul finire della guerra civile d’Irlanda. Colm Doherty (Brendan Gleeson) e Padraic Súilleabháin (Colin Farrel) sono amici da sempre, eppure il primo decide senza alcun motivo chiaro ed apparente di porre fine ad ogni tipo di rapporto con Padraic. Asserisce che non ha più tempo da perdere e vuole dedicare anima e corpo all’arte, in particolare alla musica. Ovviamente questo turba e sconvolge la vita del suo amico, che pian piano diviene testimone di un mondo che inizia a perdere di senso rasentando l’assurdo.

 

La sceneggiatura: Beckett “sogna” Shakespeare

In Banshees of Inisherin Martin McDonagh scrive un testo pensandolo come terzo di una trilogia teatrale(mai andato in scena). Le radici della sua scrittura traggono tutta la linfa possibile dalla viscosa poetica del suo connazionale Samuel Beckett. La struttura scenica e concettuale dell’isola e la tessitura emotiva dei personaggi invece è assolutamente shakespeariana, l’ultimo Shakespeare, quello più riflessivo, più compassato, sublime. La convivenza di queste due importanti suggestioni risulta a volte problematica e non immediatamente digeribile dal punto di vista ritmico.

Siamo difronte ad un testo che non riesce ad essere epico, non crea dunque una cassa di risonanza all’altezza per le emotività dei suoi personaggi, ma neppure disperante ed esistenzialista fino in fondo, non siamo infatti posti neppure brutalmente di fronte all’insensatezza totale del nostro amare, soffrire, vivere e poi morire. Si ferma nel mezzo. Ciò non toglie che siamo davanti ad una scrittura felice e siamo pienamente oltre la sufficienza per un prodotto audiovisivo. In “Tre manifesti ad Ebbing, MissouriMcDonagh è stato più preciso nelle scelte risultando decisamente più tagliente e lacerante.

Sidhe, il tramonto del mondo delle fate

Sidhe è il termine gaelico con cui la mitologia nordica si riferisce al mondo fatatato. Nelle fiabe, che sono il mondo dei bambini, gli eroi non muoiono mai ed il bene è sempre contrapposto al male. Tutto va come deve, e nulla può incrinare le leggi che regolano quel mondo. Poi avviene l’irreparabile, si cresce, iniziano le insicurezze, cominciano a farsi strada nell’anima questioni esistenziali ed il dubbio offusca la ricerca della felicità. Non si riesce più a volare, come ci ricorda Peter Pan.

 

I personaggi fiabeschi che troviamo sull’isola di Inisherin, cominciano secondo la propria sensibilità a sentire prepotentemente il dramma che abita il mondo aldilà del mare, il nostro, sulla terraferma. Il dramma della realtà, della guerra, della malinconia, dell’insoddisfazione, della depressione ed infine della morte. Ne sentiamo gli echi sotto forma di cannoni per tutto il film. Il poliziotto cattivo, lo scemo del villaggio, l’oste accogliente, il prete pusillanime, la droghiera impicciona, la vecchia strega, l’asinello amico del protagonista, tutti topos che dovranno affrontare o assistere al dramma di diventare “bambini veri”.

Il Pelide Achille sotto il cielo d’Irlanda

Colm ad un certo momento della sua vita e per motivi non chiarificati inciampa in uno dei più grandi dilemmi dell’umanità espresso dal più grande dei poeti greci. Il dilemma risiede nell’impossibilità di coniugare la fama eterna con una vita felice. Dove vi è l’una non può esserci l’altra. Ecco che Colm insegue la chimera della fama eterna, sacrificando e mutilando senza senso oltre che se stesso, anche la propria quotidianità ed un sincero amore reciproco per l’amico Padraic. Quest’ultimo puro ed angelico non ha interessi verso l’arte o la musica, non è nel futuro che cerca la sua felicità o la sua realizzazione come uomo. La sua vita è votata alla gentilezza ed all’affetto, ma il terremoto emotivo scatenato da Colm, lo porterà prima a chiedersi se sia lui lo “scemo del villaggio” e poi a perdere la sua innocenza.

Son rimasto io da solo al bar…

Il grande motore di Banshees of Inisherin sta nel rapporto tra Colm e Padraic, che come Estragone e Vladimiro in “Aspettando Godot” o Hamm e Clov in “Finale di Partita“, sono legati indissolubilmente, dolorosamente e nonostante gli sforzi e le amarezze non riusciranno a perdersi di vista. Nella vita si soffre senza conoscerne il motivo profondo, il fine ultimo, ed è in questo senso di vuoto vertiginoso che si colloca il paradosso dell’assurdo impostato da Samuel Beckett e perpetrato da  McDonagh. L’ immagine emblematica di Padraic al tavolo del bar, frustrato, con le lacrime agli occhi, che in compagnia di una pinta, sola ed impotente testimone del dramma, aspetta il suo amico, inutilmente ed assurdamente irraggiungibile, deciso a non vederlo mai più, è il paradigma non solo del film ma di una filosofia tutta.

 

In conclusione

Il film inizia con una dolce ninna-nanna ungherese e finisce con una casa in fiamme, che ricorda il finale struggente ed apocalittico di “Nostalghia” di Andréj Tarkóvskij. Nel mezzo l’assurdo, la frustrazione, la solitudine, ahimè sempre però fin troppo stemperati. Il film è meno bello di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” ma più complesso e più ricercato. Una menzione particolare va a Colin Farrell, dolcissimo, misurato, empatico, un grande attore che io amo moltissimo e che qui si riconferma ad altissimi livelli. Trovate il film su Disney Plus: guardatelo in lingua originale.

Recensione a tre stelle su Almanacco Cinema