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Non così vicino

Non così vicino: quando il caos ti restituisce la vita

Il caos è vita: questa la tesi di Non così vicino, ambiguo titolo italiano della pellicola americana A man called Otto, diretto da Marc Forster e interpretato da un inedito Tom Hanks.

Inedito perché in un ruolo che non gli è abituale: quello del vecchio brontolone, quello che gli anglosassoni chiamerebbero “grumpy”. Un cliché molto caro al cinema.

Otto è l’erede putativo di una lunga stirpe di brontoloni, dal Melvin di Jack Nicholson in Qualcosa è cambiato al Clint Eastwood di Gran Torino, passando per il Carl Fredricksen del capolavoro di animazione Pixar Up. Se questo tipo di personaggio non è particolarmente originale, risulta del tutto inusuale se incarnato da un attore come Hanks.

Tra i ruoli da lui interpretati in precedenza, forse, l’unico che si potrebbe considerare affine ad Otto è il protagonista di Turner e il casinaro: un poliziotto maniaco dell’ordine, dell’igiene e del controllo la cui esistenza è totalmente stravolta dall’arrivo del mastino Hooch.

In questo film, però, troviamo un elemento fondamentale in più: il dramma personale di Otto, che lo porta a desiderare ripetutamente di togliersi la vita. Un’aggiunta non da poco, che lo avvicina di più al protagonista di Up che non al poliziotto trentenne da lui interpretato nel 1989.

Malgrado sia un ruolo per lui inusuale, Hanks è semplicemente perfetto: nelle espressioni perennemente corrucciate, nelle poche parole, nelle piccole manie quotidiane. Finché anche nella sua vita irrompe, come in quella di Turner, il caos. Caos che prende svariate forme: per prima quella di una chiassosa famiglia messicana che si trasferisce nella casa di fronte alla sua e che, al suo broncio perenne, risponderà con sorrisi e gesti di apertura.
Successivamente, di un gatto randagio (al posto del cane di Turner) e infine di un ragazzo transgender, Malcolm, con il quale il protagonista finirà per creare un legame profondo.

Il proposito iniziale di Otto è solo uno: il suicidio. Perché nelle sue condizioni vivere non ha più un senso. L’importanza di questo tema nella storia è ancora più lampante se si considera che il film è l’adattamento americano di un film (My name is Ove) e di un romanzo (L’ uomo che metteva in ordine il mondo, di Fredrick Bachman) realizzati in un Paese, la Svezia, in cui il problema dei suicidi è molto sentito. Ma torniamo a Otto: è grazie al caos se cambierà punto di vista e si ricorderà di ciò che per lui è davvero importante.

Bisogna fare i complimenti a Forster per essere riuscito a mettere insieme un film che parla del tempo che passa, della perdita e del senso di smarrimento in un mondo che cambia senza risultare pietistico ma, tuttavia, facendo scorrere abbondanti le lacrime negli occhi di chi guarda.

Se c’è un aggettivo che ben si addice a questo film è asciutto: non vi si trovano musiche in crescendo cariche di violini, non c’è una fotografia glamour sebbene sia molto curata, c’è ironia senza volontà di far ridere nei momenti più leggeri. Non ci sono forzature, eppure lo spettatore empatizza pienamente con Otto e con il suo dolore. E questi, già di per sé, sono grandi pregi.

A parte Tom Hanks, nella doppia veste di attore protagonista e di produttore, nel cast non figurano grandi stelle hollywoodiane. La produzione è intima al punto da essere familiare: come co-produttrice c’è la moglie di Hanks, Rita Wilson, mentre ad interpretare il ruolo di Otto da giovane è il figlio meno famoso dell’attore, Truman.

Il resto del cast è sotto traccia, ma non difetta di buoni interpreti: come Mariana Treviño, che interpreta la nuova vicina messicana di Otto, molto accogliente e molto incinta, la cui performance nella versione italiana viene un po’ penalizzata dal doppiaggio nostrano.

La pellicola si serve di frequenti flashback, che si innescano quasi sempre quando Otto è sul punto di togliersi la vita, e mostrano allo spettatore come è arrivato a desiderare di compiere il suo gesto: tassello dopo tassello, è proprio chi guarda a ricomporre il puzzle un po’ scombinato della vita di un uomo tenero e distrutto dagli eventi che, alla fine della visione del film, tutti avrebbero voglia di abbracciare.

Sullo sfondo, c’è anche un tema sociale di estrema attualità: il tema abitativo. Otto, infatti, vive in una casetta di proprietà facente parte di un complesso di case gestito da una compagnia dal nome inquietante: Dye & Merika.

La scelta del nome non è casuale e, proprio come dichiara lo stesso Otto, rappresenta la “morte dell’America, perché l’America sta morendo”. La compagnia, infatti, cerca di mettere le mani sulle case della zona convincendo i loro inquilini ad andarsene e a vendergliele a un prezzo stracciato.

E anche qui torna alla mente, in Up, l’immagine della casetta del protagonista stritolata tra alti palazzi moderni. Nel film Pixar il protagonista troverà un unico modo per salvarsi: trasformare in mongolfiera con mille palloncini colorati la propria casa e spiccare il volo verso una nuova grande avventura.

Qui sarà la difesa della casa a dare ad Otto l’opportunità per aiutare il prossimo, affrancandosi dall’egoismo in cui si è rifugiato e riuscendo a compiere fino in fondo la propria evoluzione come personaggio e come persona.

Perché in Non così vicino, come in Up, c’è un ingrediente fondamentale senza il quale non sarebbe possibile compiere un vero viaggio di trasformazione: gli amici.

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